di Aurelio Mancuso twitter@aureliomancuso
Mica è facile parlare di accesso alle tecniche medicalmente assistite, in primo luogo perché quando si arriva ad accedervi, soprattutto per quanto riguarda le donne eterosessuali, si parla di storie complesse, dolorose, costellate da diversi tentativi, uso di farmaci e d’interventi. Il diritto alla maternità, in un Paese dove non si fanno figli soprattutto in ragione dell’insostenibilità economica (ma anche grazie a una positiva evoluzione dei rapporti fra i sessi, della democrazia familiare, della razionale ricerca di una qualità della vita per i nascituri), è finalmente stato sancito dalla Corte Costituzionale che ha liberato il Paese dalla prigione della legge 40, costruita da una maggioranza parlamentare trasversale, intenta ad affermare antiche primazie valoriali cattoliche a detrimento dei diritti delle persone conquistate con la democrazia e la laicità dello Stato. Per ora la Conferenza delle Regioni, all’unanimità (quindi, compresi numerose compagini politiche locali rette dal centro destra) ha stabilito le linee guida e si può procedere nelle strutture pubbliche, gratuitamente, ad accedere a cure mediche, la cui ricerca italiana ha fornito un grande contributo scientifico nel mondo. Permangono alcuni dubbi e odiose discriminazioni.
Bisogna sempre ricordare che la legge 40 è l’unica normativa italiana che discrimina giuridicamente per affermazione conclamata le coppie omosessuali e le persone single escludendole dalle terapie riproduttive. Il risultato è che le coppie omosessuali che hanno i mezzi economici vanno all’estero (così come accadeva per le donne quando non c’era la 194) e per la stragrande maggioranza dei cittadini e cittadine lgbt non rimane che attendere lontane evoluzioni legislative. Il tema evidentemente è così ostico che nemmeno i Radicali e altre associazioni se la sono sentita di porre la questione, con buona pace di chi pensa che in Italia ci sia una seria volontà di non mortificare le persone lgbt. Sui dubbi, oltre la richiesta pressante da parte della ministra Lorenzin (appartenente a quella maggioranza trasversale che votò l’orribile normativa) di riscrivere la legge, perché a suo avviso anche con le regole varate dalle regioni, mancano indicazioni precise su questioni essenziali, emergano qua e là obiezioni legate soprattutto alla possibilità di scelta dei genitori riceventi, di alcune caratteristiche genetiche. Non si scivola in alcun pericolo eugenetico, certamente il fatto che si possa accertare che il donatore non sia nero, essendo i genitori riceventi il seme, bianchi, qualche brivido lo fa provare.
Rassicurati dall’articolato licenziato dai governatori, che fissa limiti e sprizza buon senso, meno positivi sono molti commenti letti sul web, dove s’invoca in generale un diritto alla scelta da parte dei genitori riceventi, di alcuni caratteri somatici, primo fra tutti lo stesso colore della pelle. Qui allora entra in gioco un confronto che sarà bene prima o poi affrontare, tenendo escluse le speciose argomentazioni degli integralisti religiosi. Il tema è la genitorialità, e il fatto che avere la possibilità di accedere a tecniche per risolvere problemi legati all’infertilità e altre patologie, non fornisce tout court un diritto “ad avere un bambino”.
Così come per quanto riguarda i minori da adottare, ciò che è preminente è sempre il diritto dei bambini ad avere figure genitoriali dedicate, indifferentemente dalla loro pelle, orientamento sessuale (da qui la nostra opposizione all’odiosa e ingiustificabile esclusione sia per le adozioni e sia per la fecondazione assistita delle coppie omosessuali). Se è giusto respingere le tesi “naturalistiche” che fanno discendere la volontà che gli unici aventi diritto ad avere figli sono le donne e gli uomini eterosessuali sposati, allo stesso modo dobbiamo respingere che vi sia un “diritto” alla somiglianza somatica, che è altra cosa rispetto a un progetto di genitorialità responsabile e consapevole.
Il dibattito è aperto.
(5 settembre 2014)
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