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“Storie” di Gianfranco Maccaferri, “Akram, il più generoso”

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Gianfranco Maccaferri 02di Gianfranco Maccaferri  twitter@gfm1803

Volevo tornare a vivere in un ambiente ostile, estremo, dove l’assenza di tutto ti fa morire. Volevo tornare a sopravvivere nel nulla.

Così ho deciso di tornare a casa.

Sono passati circa trent’anni dall’ultima volta che ho varcato questa frontiera, i trent’anni necessari per trasformarmi da adolescente sfrontato e spudoratamente provocatorio ad un uomo che ritorna per cercare risposte. Non ho mai avuto molta memoria.

Adesso c’è il bus con l’aria condizionata che attraversa i villaggi, le lunghe distese di sabbia ondulata e costeggia le poche fattorie con i campi coltivati ad enormi circonferenze intorno ai pozzi d’acqua.

Il viaggio dura ore interminabili ma la mia attenzione nel riconoscere luoghi e villaggi mi riporta a situazioni dimenticate, a persone che avrei voglia di rivedere. Mi riprometto di fare un ritorno spezzettato, fermandomi in ogni luogo dove so esserci vecchi amici.

Ma adesso l’urgenza è di rivedere Akram! Il ricordo da adolescente che ho di lui è un viso troppo segnato per essere giovane ma un corpo fiero e agile; la mia curiosità è capire quanti anni ha adesso o meglio… quanto è vecchio.

Dal bus scendo quasi con i brividi di freddo per l’aria condizionata ma vengo subito soffocato dal caldo secco che mi costringe a sedermi su un muretto all’ombra: lo sbalzo termico di oltre 20 gradi in pochi secondi è violento. Si avvicina una nuovissima ed enorme jeep e dal finestrino un ragazzo dal sorriso spontaneo e allegro mi chiede se sono l’amico di Akram. Al mio cenno mi apre la portiera, salgo velocemente e il ragazzo riparte usando il clacson come fosse una sirena. Il viaggio continua per un paio di ore su asfalto, strade sterrate, sabbia. Al giovane autista fortunatamente non piace l’aria condizionata così riesco con calma ad abituarmi al clima. Il ragazzo, che dice di chiamarsi Abdel, alle mie domande risponde che sarà Akram a darmi le risposte, lui deve solo guidare.

Finalmente l’oasi: poche case rifatte a nuovo e tutte bianche, alcune tende, le palme e dei piccoli orti, le capre e i dromedari che riposano, le piante di fichi d’india che segnano il perimetro di quello che è stato il mio primo territorio.

Vedo un uomo dal viso segnato ma molto bello, tipico dell’arabo che ha vissuto sotto il sole tutte le sue lunghe stagioni; mi aspetta sotto la tenda, sorride “Salâm ‘aleikum”, io lo guardo, …è proprio Akram e gli rispondo entusiasta “Wa’aleikum salâm”.

Akram continua a ispezionarmi a lungo poi ripete tre volte alzando lo sguardo al cielo: “Al-hamdu lillâh”, mi prende per le spalle “Sei diventato uomo, non sapevo come immaginarti da adulto”. Lo abbraccio con affetto sincero e lui mi stringe forte da farmi mancare il fiato. Ecco cosa mi mancava: risentire la sua voce, rivedere i suoi occhi, la sua presenza protettrice di uomo forte, deciso.

Akram mi riceve nella tenda posta vicino alle case dell’oasi che conosco bene e di cui lui è praticamente il proprietario. Non mi fa sedere, mi porta nella casa vicino alla tenda. Dentro è molto buio ma finalmente è fresco. Ovunque è piastrellato: nere, bianche, blu… le piccole piastrelle di ceramica formano dei delicati decori geometrici, ovviamente non c’è nessun ritratto; l’iconoclastìa è uno dei fascini di queste genti, della loro arte e dei decori; in fondo anch’io non sono mai stato un iconodulo, probabilmente è un retaggio perché anche in casa mia non è mai esistito un ritratto appeso o esposto.

Akram mi fa vedere una camera e un bagno riccamente rifinito e profumato, si congeda dicendo che mi aspetta alla tenda, ma intanto farà preparare il tè. Aggiunge che nella panca ci sono dei vestiti leggeri adatti al luogo, posso prendere quello che più mi piace, non vuole vedermi con pantaloni e T-shirt.

Mi lavo con l’acqua che, a quest’ora di fine pomeriggio, è naturalmente calda; il piacere di togliersi la sabbia e il sudore qui è un lusso e io lo assaporo lentamente.

Nella panca trovo tutto ciò che occorre: dai barrakan a delle bellissime kandure (tuniche lunghe), alcune di cotone leggero quasi trasparente, altre più pesanti; tutto rigorosamente bianco. È un piacere vestirsi con questi indumenti; poi, scalzo, torno all’esterno e mi sento perfettamente a mio agio.

Ricordo che la mia pazienza l’ho sempre misurata osservando il ragazzo che si dedica alla preparazione del tè; quante volte versa da un bricco all’altro il liquido nero così da formare la schiuma? Provo, come da ragazzo, a contare i travasi e i tempi di bollitura, ma cedo velocemente:

Ho perso la calma e la tranquillità necessari per apprezzare questo rito.

Akram non parla, continua a guardarmi e a sorridere. So che aspetta il tè per chiacchierare.

I pensieri mi portano a chiedergli perché invece di stare al fresco e all’oscuro di una stanza, vive le sue giornate sotto questa tenda. “Uso le mura di casa solo la notte o se c’è il vento.”

Questo è il fascino di Akram: essere bedwī (beduino) naturalmente, senza sovrastrutture, tradizionalista nell’animo, già trent’anni fa era così, non l’ho mai visto interessato a nessuna forma di modernità.

Il ragazzo che ha preparato il tè finalmente lo serve versandolo nei bicchieri.

Nel bicchierino di vetro due dita di bevanda nera, bollente, con la schiuma che raggiunge il bordo. Il gusto dolce ma fortissimo, lega la bocca e mi sembra di non poterla più aprire.

Il discorso di Akram è subito concreto, diversamente dall’usanza comune che prevede girare intorno alle questioni con lunghi dialoghi, con Akram si affronta tutto subito …questo lo rende a molti antipatico e arrogante.

“Sono in viaggio quindi non faccio questo ramadan, sono qui da ieri sera perché sapevo che saresti arrivato oggi, ma domani riparto, devo andare a prendere i datteri, poi torno qui, ci vorranno 6 giorni. Se vuoi seguirmi domani si parte prima di vedere la luce, fatti trovare pronto.”

“Perché non usi una jeep per gli spostamenti, non ho visto quasi nessuno che trasporta la merce ancora con gli animali?”

“Non mi interessa. Io ho molto tempo e solo viaggiando lentamente con le mie bestie ho la mente libera, ma anche stare qui, fermo… ho la sensazione che il tempo mi sfugga via.”

“Non sono più abituato a questa terra, non vorrei esserti di peso nel viaggio.”

“Non ho fretta, ma vedrai che il ritmo sarà facile per te, certe cose il corpo non le dimentica. Faremo lo stesso percorso che abbiamo fatto insieme altre volte”

Il sole è tramontato ma la luna quasi piena illumina ogni cosa.

Si avvicina alla tenda un uomo che chiede cortesemente dell’acqua, mi alzo io e gli porgo una ciotola piena. L’uomo la beve in un solo sorso poi guarda Akram che, sorridendo, gli fa cenno di servirsi da solo. L’uomo prende un secchio di latta, apre il rubinetto del pozzo e, quando il secchio è pieno d’acqua, lo prende con le due mani e lo solleva “MASHÂ’ALLÂH” (lodo colui che ha creato una cosa così bella), inizia a bere portando il secchio alla bocca. Beve lentamente senza mai staccarsene e noto che il suo stomaco inizia a gonfiarsi, simile alla gobba del dromedario; ho gli occhi sbarrati a guardarlo, ma un rutto fragoroso sancisce la fine della bevuta, seguito da un “AL-HAMDULILLÂH” e subito dopo “ALLÂHU’AKBÂR” (ringraziamento e lode).

È pronto il secondo giro di tè: più leggero e il bicchierino questa volta è pieno di liquido un po’ più trasparente, ma il gusto è sempre forte e lo zucchero è tanto.

Sternuto e in modo naturale mi escono parole dimenticate “Al-hamdu lillâh”, subito Akram mi guarda stupito e con un sorriso risponde “Yar’Hamûk’Allâh. Ma allora non hai dimenticato l’educazione che tua madre ti ha insegnato, tua madre è sempre stata una brava donna! …ma fare un figlio con quell’uomo è stato un errore.”

“Io non sono Ibnu’l-haram! …e tu lo sai bene!”

“Non sarai un figlio illegittimo… per tuo padre, ma per me sì! Tua madre ha sbagliato a sposarsi con un italiano! …sei ancora infedele?”

“La risposta la sai… lo sono sempre stato! Smettiamola di parlare di questo. Parlami di te, sono venuto per conoscerti, non hai mai risposto alle mie lettere, tu sei stato importante per me, sono trent’anni che ti penso ma non ricordo perché te ne sei andato via una notte e non sei più tornato.”

“Lo sai che io parlo poco.”

In silenzio osservo il ragazzo che continua a preparare il tè, il terzo: la bellezza dell’ultimo tè è che il ragazzo, servendolo, porta anche una ciotola con le arachidi. È questo il tè che amo in assoluto di più, quello con dentro le arachidi. Mi ero dimenticato come i due gusti in bocca si amalgamano.

Bevendo lentamente e masticando osservo situazioni che conosco: i pochi uomini di questa oasi stanno finendo le preghiere e le donne escono di casa con vassoi e pentole per posarle sotto una tenda su un grande tappeto; tra poco gli uomini andranno a mangiare, a chiacchierare, a passarsi la serata insieme.

Una delle donne mi guarda, poi torna di corsa in casa, esce con una decina di altre donne che corrono verso di me… loro probabilmente hanno capito chi sono, ma io non riesco a riconoscerne neppure una.

Le donne guardano prima Akram che fa un gesto di assenso e solo allora vengono a salutarmi: iniziano farmi domande così velocemente e tutte insieme che io non capisco nulla di ciò che dicono.

Nessuna mi si avvicina fisicamente o mi bacia o mi stringe la mano o mi abbraccia, ma io sorrido a tutte sperando che Akram mi aiuti ad affrontare la situazione.

Akram batte una volta le mani, le donne zittiscono.

La più anziana mi si avvicina e con le sue mani rugose mi prende il viso, mi guarda dentro gli occhi, attende paziente nel mio silenzio, vedo alcune lacrime e capisco chi è, la somiglianza è enorme.

Le sorrido. Lei inizia a singhiozzare e io dico solo “La mamma sta bene”.

La donna piange e poi ride, ma anch’io ho le lacrime agli occhi, sforzandomi riesco a tornare calmo, ad avere nuovamente un atteggiamento distaccato, come si conviene ad un uomo “La mamma ha detto di salutarti, ho un piccolo regalo che mi ha dato per te”.

Allora questa donna inizia a fare ciò che speravo di poter evitare: mi presenta una a una le altre donne, da quelle più vecchie alle ragazze. Nessuna si copre il viso, io sono della famiglia. Terminati i saluti le donne si allontanano tranne l’anziana.

“Tua madre è stata forte, coraggiosa, nessun’altra ho osato tanto. Ha fatto ciò che sentiva nel cuore, tu sei fortunato perché hai bevuto il suo latte. Ancora oggi le ragazze giovani parlano di lei e tutte sperano che arrivi un occidentale per innamorarsene. Povere sciocche… nessuna di loro ha il carattere di tua madre e così tocca a me cercare i futuri mariti per loro. Per fortuna i loro fianchi indicano che saranno buone fattrici. Di a tua madre che ha fatto bene a non tornare, nessun uomo della famiglia l’ha mai perdonata. Stupidi!”

Il suo viso adesso è luminoso e l’espressione serena, felice. Mi prende la testa tra le sue due mani, io mi abbasso, lei mi bacia la fronte poi si allontana, guarda in direzioni degli uomini e ripete “Stupidi!”.

I suoi anni glielo consentono.

Le donne tornano vociferando dentro casa, loro mangeranno lì.

Mi avvicino a Akram chiedendo: “E i ragazzi dove sono?”

Lui s’innervosisce, lo capisco dall’espressione del viso e con poche parole mi fa capire cosa pensa “Sono in città a studiare, a lavorare, nessuno vuole vivere qui, neppure per sposarsi tornano!”

Capisco che è meglio non insistere ma lo sguardo mi cade sul ragazzo del tè. Akram nota la mia attenzione.

“Abdel non è di qui, lavora per me, lui è senza famiglia!”

Fissandomi serio continua: “E questa spiegazione ti deve bastare!”

Approfittando della sistemazione per la cena chiedo a Akram chi sono gli altri uomini, se sono miei parenti e la risposta è negativa e sbrigativa: “Quei due sono i mariti delle tue cugine, gli altri lavorano per me o sono di passaggio” poi, guardando verso il deserto, lentamente e inaspettatamente si racconta.

“Anch’io sono di passaggio, anche se questa oasi è mia, a parte le due case della vostra famiglia, io preferisco essere libero. Non ho famiglia. Mi sono sposato che ero quasi imberbe e per avere una bella moglie ho dato tutto ciò che possedevo, ma dopo due anni non erano arrivati figli e così feci un accordo con il padre per restituirla. Le trovai un mio amico vedovo che se la poteva permettere. Così il padre della donna ha guadagnato due volte. Dopo pochi mesi la ragazza era incinta. Ho capito che ero io quello sterile! Non mi sono più sposato e così ho risparmiato soldi, bestie e proprietà! Con questo… sai tutto della mia vita.” Non ho mai sentito Akram parlare così a lungo.

Mi guardo intorno, mi sembra il momento giusto per fargli la domanda che da trenta anni mi pongo, mi avvicino e gli sussurro “ma tu sei… lūtī?”

La sua espressione è tra l’interrogativo e l’irritato: “Andiamo a mangiare! …hai sempre l’abitudine di parlare troppo, sembri una donna!” …e ancora: “Sei spudorato come tua madre!”

In realtà mi sento offeso, non gliel’ho chiesto davanti a tutti, nessuno ha sentito, so che la parola lūtī lo avrebbe provocato, in arabo non c’è neppure una parola corretta per definire l’omosessualità, sono tutte parole offensive e dispregiative.

Lo prendo per le spalle, lui si volta e mi guarda, sottovoce ma deciso gli dico: “-Colui che afferma di non provare alcun desiderio quando guarda a bei ragazzi o bei giovani è un bugiardo, e se gli credessimo lo vedremmo come un animale, non un essere umano.- Me lo hai insegnato tu, è del 1200 vero?”

“Allora quando vuoi la memoria ti funziona!”

“Adesso tu mi racconti chi sei, cosa volevi trent’anni fa!”

Scuote la testa, si guarda intorno poi abbassa gli occhi.

“Va bene, io e te mangeremo sotto questa tenda, da soli però” poi urla nervoso qualcosa a Abdel. Il ragazzo immediatamente prende dei contenitori con del cibo dall’altra tenda per portarli alla nostra e li posa sul tappeto vicino a dove Akram e io ci siamo seduti. Akram gentilmente lo ringrazia, gli sorride, si scusa nel dirgli che vogliamo mangiare da soli, poi sottovoce aggiunge che non deve preoccuparsi.

In realtà io ho voglia solo di bere acqua, mi sforzo a mangiare qualcosa: prendo un pezzo del pane di datteri compressi. Akram scuote la testa “Di quelli ti riempirai la pancia durante il viaggio, stasera mangia la carne e le verdure” Prendo dei pezzi di capra e con del pane raccolgo un po di sugo con delle verdure; non sono mai stato bravo ad usare le dita come posate e così mi sporco la kandura bianca. Akram ride e mi prende in giro poi, per non offendermi: “Non ti preoccupare, le donne sono qui per questo.”

Mi sento nervoso, sento che è giunto il momento delle mie domande: “Perché trent’anni mi hai lasciato?”

“Eri ricomparso dopo anni ed eri da solo. Eri un ragazzo diverso, eri bianco, il tuo modo di guardare a volte era spudorato, altre volte mi guardavi come un cucciolo di animale, altre ancora mi sembrava di essere nudo ai tuoi occhi. Eri un ghulām irresistibile”.

“Ma io ero piccolo, avrò avuto diciotto anni.”

“All’epoca a diciotto anni un maschio era un uomo! Io a quell’età mi ero già comprato una moglie.”

“Io confidavo nel tuo nome: Akram …il più generoso, invece mi hai quasi violentato!”

“Ma tu se sei tornato a casa mia il giorno dopo, quindi…”

“Diciamo che volevo essere io il maschio che ti montava …tanto per restare nel tuo ordine di idee sull’argomento.”

“lo sai benissimo che, all’epoca, l’idea era che i ragazzi giovani amrād o ghulām che fossero servivano ai grandi per divertirsi. E oggi, alla mia età, dovrei solo guardarli… Questa era la morale tra gli uomini.”

“E quando mi portavi al hammam e mi mostravi come una tua conquista? Per me era umiliante!”

“Tutti ti guardavano e io non volevo avere concorrenza. Facevo solo capire che nessuno poteva toccarti.”

“Quanto è durata la nostra storia?”

“Tre bellissime lune. Poi un giorno dovetti partire e tu quella volta non mi seguisti, rimanesti a casa mia ad aspettarmi …lo so. Ma so anche che iniziasti ad andare al hammam da solo, mi arrivarono voci che ti divertivi… così aspettai la notizia della tua partenza per tornare in città. Mi avevi tradito.”

“Quindi fu mia la colpa del tuo non ritorno.”

“Non era possibile la nostra storia: tu non potevi vivere qui, la tua vita era in Italia. I tuoi genitori, i tuoi amici, le tue scuole, il tuo futuro non erano in questa terra.”

Con un sorriso da prenderlo in giro gli chiedo “E il ragazzo che è sempre con te, quel Abdel, alla tua età lo guardi solo?”

“Stupido! Sei geloso? Oggi per me Abdel è importante come un figlio, come un’unica moglie, come il miglior amico. È molto simile a me. Quando lo guardo mi rivedo da giovane, ha tutti i miei difetti.

…Ma so che lui non mi lascerebbe mai andare via da solo, come invece hai fatto tu.”

Capisco che per Akran la colpa di trenta anni fa è stata solo mia, è inutile continuare la discussione, così come è inutile cercare di sputare i granelli di sabbia dalla bocca masticando un dolcissimo pane di datteri compressi.

Mi addormento nel letto pulito sotto una coperta, sorridendo per aver finalmente quadrato il cerchio: la versione di Akram è plausibile: probabilmente già da ragazzino non avevo il concetto della monogamia.

È anche certo che lui deve essere stato davvero male quando scoprì di essere stato tradito e umiliato con i suoi amici del hammam.

Mi sveglio sentendo un vociare tra uomini e donne. Ricordo che avrei dovuto svegliarmi prima dell’alba, mi alzo e corro fuori.

In un attimo tutti zittiscono. Mi sento osservato. La prima è mia zia che scoppia a ridere, poi le altre donne, infine gli uomini. Le risate non hanno fine, qualcuno è piegato in due dal ridere e a mia zia escono le lacrime.

Mi guardo: ho solo gli slip.

Lentamente Akram mi si avvicina “Bene, adesso che hai fatto apprezzare il tuo essere maschio, vatti a vestire! Tutto ciò che ti occorre per il viaggio è già stato caricato, prenditi solo l’indispensabile.”

Poi in un orecchio: “Ho avuto paura che anche questa volta non saresti partito con me”.

Corro dentro casa, mi vesto veloce, controllo se nello zaino ho tutto, ricontrollo per accertarmi del deodorante e esco con un sorriso, sperando di cancellare la prima uscita.

Le ragazze mi guardano, abbassano lo sguardo e riprendono a ridere.

Mi avvicino a un dromedario. È davvero un brutto animale. La testa e lo sguardo non mi hanno mai ispirato fiducia e quel labbro superiore diviso dove ciascuna metà si muove per proprio conto mi ha sempre innervosito.

Attacco lo zaino e do un colpo sulla zampa e lui lentamente si alza. È enorme, sicuramente supera i due metri di altezza. Puzza. Chiedo ad Akram se posso spruzzare sulla bestia il deodorante. Ovviamente non mi considera. La piccola carovana inizia a muoversi. Inizio anche io a camminare ma il dromedario no. Lo guardo. Anche lui mi guarda, immobile. Quando Akram a fianco dell’ultimo dromedario si avvicina, gli dico che la bestia non si muove, che io voglio stare in mezzo alla carovana e non ultimo. “Sembri una donna isterica, non ti ricordi come si fa per farlo camminare? ma dai… tutti ti stanno guardando!”

Allora con fare deciso prendo la corda che scende dal suo muso della bestia e la tiro …niente. L’imbarazzo so che è solo mio, provo a tirare un calcio alla zampa. La bestia muove il lungo collo, si gira lentamente, mi guarda, inizia a fare un verso allucinante, sento Akram che mi urla di spostarmi, all’improvviso vedo partire da quell’enorme muso schifoso uno sputo che per fortuna mi colpisce sul petto. Resto fermo. Il dromedario inizia a marciare da solo seguendo la carovana.

Un’altra rumorosa risata coinvolge tutti.

Perlomeno ho reso allegri tutti già due volte nell’arco di quindici minuti.

Torno in casa, mi cambio il barrakan velocemente e corro fuori. Le donne stanno ancora ridendo e la carovana si è avviata. Corro. Raggiungo gli altri e riprendo il controllo del dromedario. Akram e Abdel ancora ridono. Probabilmente le mie due figuracce di stamattina tutti le ricorderanno per anni e chissà quanti racconti bevendo il tè le includeranno per rendere allegra la compagnia.

Akram ridendo racconta un vecchio proverbio: “Sotto il sole del deserto il cammelliere fa i suoi progetti, ma li fa anche il cammello”. Abdel scoppia in un altra fragorosa risata. Mi giro e guardo Akram che sorride soddisfatto.

Cerco di impostare il mio passo adeguandolo alla velocità del dromedario. Il silenzio è assoluto. Sento che il mio corpo si rilassa. Il sole inizia ad illuminare tutto. Lo spazio intorno è davvero infinito. E non c’è nulla da guardare se non la sabbia o il cielo …o Abdel che cammina davanti a me.

Ho sei giorni per conoscerlo.

Il tempo comincia a dilatarsi. Mi copro anche la testa con il barrakan per ripararmi dal sole.

Altro vecchio proverbio: “Quello che ti ripara dal caldo del sole ti ripara anche dal freddo della notte.”

Rispondo: “Ma nel buio della notte qualcuno potrebbe venire a scaldarmi”.

Abdel si volta, mi sorride.

Adesso mi sento a mio agio.

I passi si susseguono uguali e finalmente ritrovo la sensazione che avevo dimenticato: quella di sopravvivere nel nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(27 giugno 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©gianfranco maccaferri 2014
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