di Gianfranco Maccaferri twitter@gfm1803
Omar ed io abbiamo sempre abitato a Dakar e abbiamo frequentato le stesse scuole nelle stesse classi.
Da adolescenti eravamo inseparabili, a circa 17 anni mi ero accorto di essere attratto da lui, certamente dal suo corpo, ma non solo da quello e per molto tempo tutto rimase un mio segreto.
Non capendo se anche lui provava la stessa attrazione nei miei confronti tenevo nascosto quello che sapevo essere disdicevole ed un enorme peccato.
In Senegal, anche tra ragazzi giovani, non si può parlare di certe cose e io avevo paura che Omar si allontanasse da me se mi fossi confidato.
Avevo paura di guardarlo come avrei voluto, ero certo che qualsiasi contatto fisico eccessivo poteva indurlo a credere che fossi gay e questo avrebbe rovinato tutto, per sempre.
È forse inutile che specifico che in Senegal essere gay è vietato, è contro la legge, è infamante per la persona e per tutta la famiglia ed è proprio questo aspetto relativo alla rispettabilità della famiglia che viene ritenuto molto più grave e che è temuto da tutti i ragazzi omosessuali. Non è una questione religiosa, è dentro la testa della gente, è parte integrante della morale condivisa da tutti.
Così chi è gay ha due possibilità: o si sposa comunque e fa dei figli, oppure racconta in famiglia che a livello genitale qualcosa non funziona e così può evitare il matrimonio.
Io sapevo che le nostre due famiglie erano molto diverse tra loro, Omar spesso mi raccontava della rigidità dei suoi genitori nei confronti di tutto ciò che era considerato moralmente deplorevole, anche perché suo nonno è un importante imam e tutta la sua famiglia è strettamente osservante, invece nella mia c’erano due atteggiamenti diversi a seconda delle situazioni: quando si era in casa da soli, senza estranei, le discussioni con i miei genitori erano aperte, tolleranti, tutt’altro atteggiamento quando c’erano ospiti in casa o quando si era fuori. In quelle occasioni i miei genitori avevano e pretendevano anche da me, un comportamento attento a quanto comunemente ritenuto moralmente giusto.
Inaspettatamente, un giorno successe ciò che io speravo da molto tempo: Omar mi guardò come non aveva mai fatto, insistentemente, penetrando ogni mia autodifesa.
Sembrava che con gli occhi ponesse domande e pretendesse risposte.
Tutto successe in silenzio …poi le parole confermarono i sentimenti che entrambi provavamo.
Da quel giorno Omar frequentò quasi quotidianamente casa mia, ma sempre con la massima discrezione e facendo attenzione a evitare ogni possibile situazione d’imbarazzo, mentre per i nostri rapporti privati usavamo una casa di famiglia sulla spiaggia.
Ovviamente con gli amici nulla trapelò mai, anche se ho sempre sospettato che molte chiacchiere venissero fatte su noi due, probabilmente sempre solo sussurrate.
Alla famiglia di Omar la nostra evidente frequentazione probabilmente non piaceva. Capii che anche ai miei genitori destava preoccupazione il fatto che fossimo inseparabili e che ogni mio discorso includeva il nome di Omar.
Iniziarono gli impedimenti ad uscire di casa da parte di Omar e così i nostri momenti da soli si diradarono moltissimo. Anche i miei genitori, quando sapevano che andavamo al mare, facevano in modo che ci fosse sempre qualcun altro insieme a noi.
Successe che mi ammalai, un’infezione che richiedeva il ricovero in ospedale.
Nella camera della clinica il tempo trascorreva lento ed io ero tristissimo, coccolato da mia madre ma senza vedere Omar.
La sua assenza protratta per molti giorni mi portò ad uno stato depressivo che non riuscivo più a controllare, rinunciavo a parlare, a svolgere qualsiasi attività, smisi di mangiare.
Omar mi mancava in un modo a me sconosciuto.
I giorni passavano e il mio stato fisico peggiorava in modo ingiustificato e incomprensibile per i medici che mi ritenevano guarito dall’infezione.
Una sera mia madre mi chiese piangendo: “Moussa, dimmi cosa ti manca, qual è il motivo del tuo lasciarti morire?”
Dopo giorni di silenzio pronunciai una sola parola “Omar”.
Ricordo il suo sguardo, prima interrogativo e poi pieno di pietà. Ricordo che mi strinse forte la mano sino a farmi male, iniziò a piangere e non disse più nulla.
Il mattino dopo sentii la voce di Omar vicina, sentivo il suo fiato, il suo profumo.
Aprii gli occhi e lo vidi lì, accanto a me, insieme a mia madre.
Piansi …ricordo che per moltissimo tempo le lacrime incontrollate continuarono a scorrere ai lati del mio viso sino al cuscino.
Omar si avvicinò ulteriormente, era emozionato e, non controllandosi, mi baciò sulla bocca.
Guardai mia madre, la sua espressione era terribile, di scatto si alzo dalla sedia, scoppio in un pianto rumoroso e uscì.
Ma io mi godetti ugualmente Omar tutto il giorno e così seppi che mia madre era andata a parlare alla sua famiglia chiedendo se Omar poteva venire in ospedale con lei per aggiornarmi sulla scuola e aiutarmi per i compiti.
Sempre accompagnato da mia madre, Omar venne a farmi visita tutti i giorni ed io, in due settimane, fui pronto per tornare a casa.
Durante la prima cena in famiglia, alla fine del pasto, mia madre fissò intensamente mio padre in un silenzio lunghissimo e quel disagio palpabile me lo ricordo ancora perché non lo avevo mai vissuto.
Poi disse: “Tuo padre ed io abbiamo parlato molto in questi giorni e abbiamo deciso che non è gusto farti vivere in questo paese. Caro Moussa, noi vogliamo solo la tua felicità, solo così anche noi saremo tranquilli. Abbiamo deciso che la settimana prossima ti accompagniamo in Italia, a casa di mio fratello e tu vivrai lì, proseguirai gli studi, ti costruirai la tua vita in Europa, non qui. Il Senegal non è un paese per te, tuo padre ed io non sopportiamo l’idea di saperti infelice tutta la vita o comunque vivere con l’ansia che tu possa essere calunniato …o qualcosa di peggio”.
Mio padre, evidentemente preoccupato da una mia possibile reazione contraria, aggiunse “Se ci tieni tanto al tuo amico Omar, digli di andare anche lui a vivere in Europa, di proseguire là gli studi, anche la sua famiglia ha soldi a sufficienza per mantenerlo all’estero finché studia.”
Nei pochi giorni rimanenti prima della partenza mi feci promettere da Omar che avrebbe fatto tutto il possibile per raggiungermi.
Dell’ultima sera, per l’occasione ci fu tacitamente permesso di stare da soli nella casa sulla spiaggia, ricordo lo sguardo triste Omar, il suo continuare a fissarmi negli occhi, ancora una volta quegli occhi che ponevano domande e pretendevano risposte, il mio piangere, le nostre promesse, il nostro ultimo bacio.
Fu con questi tristi pensieri che arrivai in Italia, ma capii presto che i miei genitori avevano ragione a portarmi via dal Senegal.
Con Omar i rapporti viaggiavano attraverso face book o skype ma inevitabilmente con il trascorrere dei mesi ognuno iniziò una propria autonomia sia di amicizie che di innamoramenti e così nessuno dei due mantenne le promesse che ci eravamo fatti quell’ultima sera sulla spiaggia di Dakar.
In Italia mi sembrò subito di essere in paradiso per quanto riguarda i diritti civili, ero convinto di sognare quando ho iniziato a frequentare le discoteche e i locali gay, ma presto mi sono accorto di una forma strana di razzismo praticata dai gay italiani: per il solo fatto di essere immigrato e nero sono considerato “acquistabile” o una facile preda.
Presto conobbi lo squallore che troppo spesso avvolge l’approccio tra giovani: ogni sguardo di interesse sottintende sempre e solo sesso e poi, forse, anche il conoscersi.
Spesso ho pensato se non fosse stato meglio vivere in un paese dove mai avrei potuto passeggiare abbracciato al mio fidanzato ma che in cambio mi avrebbe dato l’opportunità di avere un vero grande amore …che in fondo è l’unica cosa che mi fa stare bene.
Questo sino all’altro giorno quando Omar mi ha inviato quella tragica e-mail.
Ho pianto in modo silenzioso, senza lacrime, con un dolore al torace che mi soffocava, ho conosciuto lo strazio.
Ai miei amici italiani, ai quali ho fatto leggere l’e-mail di Omar chiedendo il loro aiuto, tutto è sembrato assurdo, irreale, impossibile.
Solo quando il giorno dopo ho ricevuto l’e-mail da un’altro amico di Dakar che mi ha scritto dell’arresto di Omar, i miei amici italiani hanno dimostrato di essere concreti, pragmatici.
Hanno immediatamente contattato un avvocato famoso a Dakar che so essere omosessuale.
Dopo una decina di giorni di insistenze dell’avvocato presso la polizia e non esistendo ne denunce ne prove concrete a suo carico, Omar è uscito di prigione, subito gli ho inviato i soldi necessari per una pensione e per dei vestiti. Ho chiesto ai miei genitori di aiutare Omar e così tutte le domeniche lo ospitano a pranzo, anche in settimana mia madre gli fa avere del cibo pronto e pensa alla pulizia dei vestiti.
L’avvocato si sta occupando per la procedura di espatrio con un’ambasciata europea, così gli sarà riconosciuta la qualifica di profugo in quanto gay. Al Senegal credo faccia comodo che una persona come Omar se ne vada dal paese e quindi gli uffici per l’espatrio non dovrebbe sollevare importanti questioni procedurali.
L’avvocato ha cercato di incontrare i genitori di Omar ma questi si sono rifiutati di vederlo e hanno confermato che loro non hanno un figlio che si chiama Omar.
Questo aspetto dei genitori così intolleranti e decisi nel rifiutare un figlio gay, i miei amici italiani non riescono proprio a concepirlo, ma in realtà è normale per quasi tutte le famiglie senegalesi fare quello che hanno fatto i genitori di Omar, sono i miei genitori quelli strani.
Ed è per questo che io ammiro mio padre e mia madre: per il loro essere autonomi nei pensieri, nella morale, per il fatto che nella loro scala di valori al gradino più alto c’è la mia felicità …e me lo hanno dimostrato.
Mi fanno invece incazzare i miei amici italiani quando pensano a che festa organizzare per l’arrivo di Omar. Quando parlano di portarlo a divertirsi in qualche discoteca gay o andare insieme ad un pride…
Non riescono proprio a capire che i ragazzi che hanno vissuto in una società dove l’essere scoperti omosessuali equivale a morire o andare in carcere, non importa poi in quale società questi ragazzi andranno a vivere ma per tutta la vita si porteranno comunque il timore, la riservatezza, la paura che qualcuno intuisca il loro essere gay.
Ma se non lo hanno ancora capito con me… è una battaglia persa.
In questi giorni con Omar ci vediamo tramite internet: è segnato, dimagrito, è diverso nell’espressione …ho notato che, anche se Omar è da solo nella sua stanza quando si collega a Skype, l’unica parte scoperta che lascia vedere è il volto: indossa sempre la camicia a maniche lunghe tutta abbottonata e tiene sempre un cappello; vorrei chiedergli il perché, cosa nasconde… ma i segni che ha sul viso mi impediscono di fare domande.
Ogni volta che provo a chiedere a mia madre lo stato fisico di Omar, lei inizia a singhiozzare e interrompe la telefonata.
A differenza dei miei amici italiani, io sono angosciato dal suo arrivo: ho paura del momento in cui lo dovrò guardare e lui farsi vedere.
(5 luglio 2014)
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