di Aurelio Mancuso twitter@aureliomancuso
La nazionale di calcio e la FIGC hanno aderito alla bellissima campagna #Allacciamoci promossa da una famosa società di scommesse in collaborazione con Arcigay, ArciLesbica e la Fondazione Cannavò sport. Nata un po’ in sordina, con non sufficienti adesioni da parte di società e giocatori, la campagna ora sta prendendo slancio e mercoledì anche i giocatori della Nazionale a Madrid potranno utilizzare i lacci rainbow come stringhe per le loro scarpe.
Lo sport italiano (come anche in tanti altri Paesi) è da sempre refrattario a occuparsi delle discriminazioni in ragione dell’orientamento sessuale. Si arrivò persino a ridicole dichiarazioni da parte d’importanti dirigenti del calcio femminili che alcuni anni fa negarono la possibilità che ci fossero lesbiche tra le calciatrici. Ora questa campagna nel mondo del calcio, che tra l’altro sta trovando sostegno anche in altre discipline, è un ottimo segnale che si somma a tanti altri che negli ultimi anni con timidezza continuano a giungere.
Ricordiamo le continue prese di posizione nel mondo dello spettacolo e della cultura, da Saviano a Mannoia, per arrivare recentemente al bellissimo video confezionato da Famiglie Arcobaleno in occasione di #loveisright che ha coinvolto i giovani attori del momento e che su Repubblica è stato visionato da centinaia di migliaia di persone. Questo ampliarsi di sostegni, azioni comuni con mondi diversi dalla comunità lgbt è l’ulteriore riprova che nella società italiana il messaggio culturale e sociale ha vinto e si rafforza. E il fatto che gli avversari estendano la propria azione è principalmente una nostra vittoria, per questo il vittimismo e a volte l’inutile polemica d’inseguimento sono un danno.
Semmai ciò su cui bisogna concentrarsi sono le troppe insufficienze e mancanza strutturale di una strategia della collettività lgbt. Non ci si fermi a criticare le enormi divisioni interne al movimento, che non riguardano differenze rispetto alle richieste di diritti, ma solamente l’eterna lotta per il posizionamento e l’egemonia, si rifletta bene sull’ininfluenza politica della comunità. A fronte di un effettivo buon lavoro e di un positivo articolarsi del movimento in associazioni anche di scopo e differenti rispetto al passato, è completamente assente una testa politica unitaria, una volontà di fare tutte e tutti un passo indietro rispetto all’atavica rissosità che si esprime sia a livello nazionale sia in lotte intestine nei territori.
Ciò determina un’evidente incapacità a esser minimamente incidenti rispetto alla politica, che anzi utilizza (soprattutto a sinistra) queste divisioni per alimentarle e rendere impotenti le nostre rivendicazioni. In questo senso la decisione di non tenere quest’anno il Pride nazionale, di andare ognuno per contro proprio è solamente la pubblica ammissione di un egoismo generalizzato. Rinchiusi nei propri contadi si prepara Pride un po’ asfittici, sempre in bilico tra cortei anni ’70 e Street parade, cui partecipano in massa giovani lgbt. I Pride sono di chi ci partecipa e non di chi li organizza, ma chi li promuove non può pensare che una stanca ripetizione di gesti e cerimonie in molti casi avulsi da un rapporto popolare con la città possa aiutare a un’evoluzione.
La guerra dei Pride non interessa giustamente nessuno, anzi rischia di distogliere la comunità rispetto al suo dovere di trasformare una evidente e diffusa presenza sociale in uno strumento concreto di pressione, immettendo potenti dosi di capacità lobbista. E ogni qualvolta ci s’indirizza su quella strada i risultati sono evidenti: si riesce a comunicare, a coinvolgere, a farsi sostenere da pezzi importanti della società diffusa. Può essere che insistendo in quella direzione alla fine le attuali medioevali schermaglie interne saranno finalmente spazzate via per lasciar posto a una nuova e sempre più avvertita necessaria era, quella in cui territori, sigle nazionali, reti di scopo rispettandosi a vicenda si metteranno seriamente al servizio dell’unico vero obiettivo su cui convergere: ottenere diritti.
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