Uno studente di 21 anni, poche settimane dopo l’ultimo suicidio di un altro giovane omosessuale, si è tolto la vita: ha lasciato un biglietto che diceva “l’Italia è un paese libero, ma esiste l’omofobia”, prima di andarsene.
Esiste l’omofobia e sempre esisterà, purtroppo c’è chi resiste all’omofobia e chi no.
Mentre scriviamo, ed abbiamo riflettuto a lungo prima di scrivere, Twitter è invaso da commenti sull’ennesimo suicidio (il terzo a Roma nel corso del 2013) di un giovane gay che non ha avuto la forza di resistere all’omofobia, al suo dramma interiore: abbiamo seri dubbi che gli insulti che si lanciano gli utenti di Twitter da una sponda all’altra delle loro opinioni servano a qualcosa; abbiamo seri dubbi che approfittare del suicidio di un giovane per accusare chi ha licenziato in prima lettura l’indecente legge contro l’Omofobia serva a qualcosa; non crediamo che la manifestazione contro l’omofobia annunciata da almeno due mesi e mai organizzata, ed ora fissata in quattro e quattr’otto per il 30 ottobre, serva a qualcosa e non sia l’ennesimo autogol dell’associazionismo lgtb italiano.
Abbiamo sempre scritto, e continueremo a scriverlo, che di fronte alla morte ci vuole rispetto, silenzio e una sola riflessione: che domani, oggi, tra cinque minuti o tra cinquant’anni potrebbe toccare a noi e sicuramente prima o poi ci toccherà. Diceva Gandhi, quasi sempre citato a sproposito, che la miglior maniera di vivere è pensare che domani potremmo non esserci più. In questa società dove tutto corre così veloce da impedire di pensare, la morte è sempre quella degli altri, ed è un mezzo per protestare, una scusa per rimuovere, un modo per liberarsi di una presenza scomoda.
I genitori del giovane non erano al corrente dell’omosessualità del figlio, non erano al corrente, dicono i bene informati, del dramma che si agitava nel suo cuore. Non li invidiamo.
Ora quest’ennesima morte faccia riflettere sulla cultura che la nostra società trasmette, che non è una cultura di vita: è una cultura che non vede di buon occhio chi è differente: una differenza che può essere legata all’età (i gay sono tutti splendidi, fisici perfetti, giovani, belli e gioiosi, l’invecchiamento non esiste, se non come solitudine e disperazione), alla malattia, ad un handicap fisico, alla vecchiaia, al non servire più.
La comunità gay – soprattutto la comunità gay, perché è al suo interno che si consumano questi drammi – rifletta sul messaggio che trasmette all’esterno. E’ la cultura che si trasmette portatrice di felicità e valori di tolleranza e rispetto, anche al suo interno, o è solo dedita al giovanilismo esasperato, alla cultura della bellezza e del culto del corpo, all’edonismo fine a sé stesso, a locali giocosi e gioiosi dove dimenticare e non farsi domande?
Non è una provocazione è una riflessione: da troppi anni vediamo gente che dà la colpa agli altri. Al sistema, alla politica, all’omofobia, ai pregiudizi, all’incomunicabilità, ai cattolici, agli intolleranti, magari è anche così, ma la comunità lgtb, direttamente interessata da questi drammi, che cosa fa? Cosa ha fatto? Soprattutto, cosa farà?
Pensarsi e ripensarsi non può che fare bene.
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