Un altro viaggio di Pippo, dopo lo spettacolo ed il libro omonimi DOPO LA BATTAGLIA di cui condivide molti temi. S’inizia con un ricordo omaggio dedicato a Pina Bausch, ad Avignone, questo
“piccolo” film di grande intensità e poesia, dolcissimo e violento, elegiaco e corrusco, girato molto abilmente con un cellulare; montato in maniera fascinosa e rapinosa. Assomma molteplici temi e suggestione che sono un fascio di pensieri, osservazioni, approfondimenti sulla vita, sulla morte, sulla guerra, sulla sofferenza…insomma, i “soliti” temi che Delbono affronta e dibatte da anni. Ricorda la scoperta delle lesioni ad un occhio, molti anni fa, pensa alle sue regie, nate, forse da quell’esperienza. Fa il suo coming-out sanitario, ruba immagini in un centro prelievi in un lungo episodio, e nota come siano passati ventidue anni dall’inizio della sua malattia. L’atteggiamento è critico come di chi si osservi, poi in un bellissimo ristorante antico la musica del quartetto di Alexander Balanescu. Un altro lungo capitolo riguarda la figura della madre, molto amata, molto discussa, la sua grande paura di perderla. Poi ruba ancora altre immagini straordinarie ad una scuola di ballo liscio…teatro-danza spontaneo! Osserva vetrine di giocattoli con lupi in movimento, bancarelle di inquietanti pupazzi e bambole meccanici; i volti e gli sguardi in una scuola. Ritorna alla sieropositività ed evoca l’accettazione all’atto della notizia. Riprende Balanescu che suona il suo straordinario violino,e che ricorda l’amatissima madre, una madre come l’acqua di un fiume, la definisce, ed i suoi sacrifici per pagare le lezioni di violino del figlio…tanti incontri, Bobò e Marisa Berenson, nel teatro dell’ Aquila, distrutto poco tempo dopo…la Berenson e Tilda Swinton, Luca Ballarè che fa un solo. E poi, una fortissima esplosione di dolore, detto. cantato, pianto, urlato. Poi, l’ultima immagine, quella descritta e raccontata all’inizio: da una terra sofferta e spaccata rinascono piantine verdi.
Amore Carne, di Pippo Delbono, Orizzonti, 75 minuti
Il film si inizia con lo smantellamentod i una chiesa, dai suoi arredi più preziosi, che già non sono molti, con le macchine rumorose che violentano un luogo che, qualcuno ha deciso, non sarà più sacro. Gli operai spostano le panche, un elevatore si avanza sino all’altare maggiore e sale sino a permettere di imbragare il dolente crocifisso che comincerà a vorticare su se stesso, sospeso nel vuoto. Ricordo un’altro crocefisso rapito, nell’interessante Corpo Celeste di Alice Rohrwacher, ma qui la disperazione dell’anziano parroco è ancora più profonda. Il bel volto segnato e dolente di Michel Lonsdale (un altro religioso di grande coraggio, dopo quello di Uomini di Dio) comunica un dolore intensissimo, di uomo spogliato di tutto ciò in cui crede, nonostante le rimostranze del cinico sacrestano (Rutger Hauer). La chiesa nuda è, però, un luogo ancora più forte, nella sua rigorosa essenzialità moderna. Lui porterà un piccolo bellissimo compianto sull’altare, a riconsacrarlo come può. Ma intanto, fuori, accadono cose tremende – il film è tutto in intern i- ed un senso di minaccia circonda l’edificio: suoni di motori, sirene, esplosioni di proiettili. Dopo un episodio di omelia solitaria, una notte di pioggia battente, qualcuno alla spicciolata si rifugia in chiesa: sono profughi braccati, una giovane partoriente, un ferito. La chiesa torna ad avere un senso ed il coraggio del vecchio parroco, la sua statura morale danno forza alla sua presenza, alle sue parole. Il fonte battesimale viene posto sotto una vetrata che lascia entrare la pioggia, l’acqua verrà riscaldata con i ceri e servirà per il parto… Ogni cosa ritrova una sua sacralità viva e reale, utile alla vita. Quando Lonsdale si accorge del nuovo nato intona il VENITE ADOREMUS, e quel bimbo è troppo grande come nelle natività rinascimentali. Il vecchio prete cerca di capire, non è sicuro di riuscirci, ma usa i suoi strumenti di conoscenza per mettersi in discussione e poterli utilizzare veramente per una contingenza reale, un’urgenza drammaticissima. Due dialoghi molto importanti: quello di dimensione quasi bergmaniana con il medico (Massimo De Francovich) e l’altro, di grande contrasto e contro istituzionale e di caratteri, con Alessandro Haber il graduato). Il coro degli africani,( bravissimi tutti) si muove in una dimensione teatrale, talvolta, forse esteticamente troppo curata, da mistero sacro, ma con alcuni schematismi caratteriali che denunciano un desiderio di comprendere, del protagonista, e del regista stesso, che non poche volte, però, prende, per il tramite del suo personaggio, posizioni di grandissimo coraggio e di denuncia, che continuano un importante discorso iniziato con I CENTO CHIODI. Un commento silenzioso è quello delle immagini del televisore muto che racconta un naufragio senza tempo. Commento sonoro straordinario, ed usato con estrema discrezione, quello dei magnifici brani di Sofia Gubaidulina.
VILLAGGIO DI CARTONE di Ermanno Olmi, 87 minuti, fuori concorso